Nel mese di aprile ricorre l’anniversario di uno dei più terribili genocidi compiuti nella storia mondiale , quello perpetrato in Ruanda, il Paese dalle mille colline, dove, nella primavera del 1994, in poco meno di 3 mesi, con un’atroce operazione di pulizia etnica scatenata dal gruppo di potere Hutu, vennero massacrate quasi un milione di persone di etnia Tutsi, sotto gli occhi indifferenti dell’Occidente.
Le conseguenze del genocidio sono alla radice dello scoppio della Seconda Guerra del Congo.. Dopo la fine dei conflitti in Ruanda infatti, milioni di profughi Hutu, fra cui molti miliziani responsabili dei massacri, fuggirono dal Paese e si riversarono nel confinante Zaire. Le milizie Hutu iniziarono a riorganizzarsi militarmente, mentre in Ruanda, dopo la vincente controffensiva dell’RFP, il nuovo governo insediatosi a Kigali iniziava al tempo stesso una dura rappresaglia nei campi profughi Hutu. .La Guerra del Congo (ex Zaire), detta anche Guerra Mondiale Africana o Grande Guerra Africana, è il più sanguinoso conflitto dopo la seconda guerra mondiale, ed è durata dal 1998 al 2002, vedendo coinvolti il governo di Kinshasa da una parte e le numerose e contrapposte milizie armate dall’altra. La guerra ha minato permanentemente la pace nel Paese e i vari gruppi hanno poi continuato a commettere atrocità per quasi vent’anni, martoriando l’intero Paese. Le diverse fazioni si sono macchiate a turno, di terribili crimini e violenze verso la popolazione civile e inerme seminando terrore e distruzione, tanto che Kinshasa ha ricevuto lo spregiativo appellativo di “capitale mondiale dello stupro”.
Ovviamente, in questa , come tutte le guerre di matrice etnica in cui, a tensioni mai sopite tra le varie etnie si mescolano rivendicazioni pseudo-politiche, i veri motivi sono sempre da ricondursi a interessi di carattere economico nello scacchiere della geopolitica. In Congo, nello specifico le ragioni di una supremazia di potere sono da ricollegarsi al controllo dell’immensa ricchezza mineraria del Paese. Uno di questi preziosi minerali, il Coltan, impiegato nella produzione dei cellulari, computer portatili e telecomandi che normalmente usiamo quotidianamente.
Oggi, in un crescente clima di instabilità politica e la gigantesca crisi umanitaria della Repubblica Democratica del Congo , la previsione è di Ulrika Blom, direttrice del Consiglio norvegese per i rifugiati nella Repubblica democratica del Congo, nella prima decade di dicembre ha lanciato l’allarme sulla deriva della crisi politica e umanitaria, che sta minando la nazione dei Grandi Laghi. Un avvertimento sostenuto anche dal rapporto diffuso negli stessi giorni dai ricercatori del Centro di monitoraggio dei trasferimenti forzati interni (Idmc), da cui emerge che il Congo-Kinshasa è il Paese con il maggior numero di sfollati interni supera tutte le altre emergenze in corso a livello mondiale. L’infausto primato è il risultato della brutale ondata di violenza iniziata nel 2016, che solo quest’anno ha costretto oltre 1,7 milioni di persone a lasciare le proprie case (una media quotidiana di oltre 5.500 persone) e che secondo gli analisti è stata alimentata dalla crisi politica in atto nel Paese, generata dalla decisione del presidente Joseph Kabila di rimanere in carica anche dopo la fine del suo secondo mandato, ormai un anno fa. Una decisione che ha suscitato proteste anche nell’ultimo giorno del 2017, quando – stando a fonti Onu sentite dall’Afp – gli scontri tra manifestanti e forze di polizia hanno portato alla morte di sette persone a Kinshasa e una a Kananga. La sua ostinazione nel restare incollato alla poltrona ha trascinato l’ex colonia belga nell’impasse politica e ha contribuito al rallentamento dell’economia e all’aumento dell’inflazione, che ha provocato un vertiginoso aumento dei prezzi dei prodotti alimentari, rendendo ai congolesi sempre più difficile assicurarsi la sussistenza. Kabila è salito al potere della Repubblica democratica del Congo nel 2001 senza essere eletto, all’indomani dell’assassinio di suo padre, Laurent-Désiré Kabila, avvenuto il 16 gennaio 2001. In seguito, ha vinto le elezioni nel 2006 e nel 2011. Poi nel rispetto della Costituzione, che non permette di ricandidarsi per un terzo mandato, avrebbe dovuto lasciare il suo incarico il 20 dicembre 2016. Tuttavia, Kabila sta continuando a governare adducendo ragioni di sicurezza, dovute alle rivolte interne nelle province orientali del Congo e nella regione del Gran Kasai, quest’ultima innescata proprio dal suo rifiuto di andarsene. Le sue macchinazioni politiche finora gli hanno consentito di restare in carica almeno sino al gennaio 2019, dopo che in spregio dell’Accordo di San Silvestro, che prevedeva la convocazione di nuove elezioni entro la fine di quest’anno, lo scorso 8 novembre, ha stabilito che non si andrà al voto prima del 23 dicembre 2018. Le elezioni locali, invece, sono state fissate per il settembre 2019, garantendo così al suo blocco politico di restare al potere per almeno altri due anni. In questo modo, Kabila avrà tutto il tempo necessario per escogitare altre soluzioni che gli consentano di continuare a esercitare il controllo sul Congo, dove la corruzione e il malaffare legato al suo clan continuano a farla da padroni, come dimostra un’inchiesta realizzata nel dicembre 2016 da Bloomberg Businessweek.
In 57 anni d’indipendenza il Congo è stato condizionato da guerre civili, carestie ed efferate razzie compiute contro la popolazione. In tutto questo tempo, la nazione dell’Africa centrale è stata teatro di ripetuti colpi di stato, che hanno portato al potere tiranni del calibro del colonnello Mobutu Sese Seko, che per 36 lunghi anni ha instaurato una dittatura cleptocratica nel Paese. Ma soprattutto, da quando ha ottenuto l’indipendenza il Congo non ha mai conosciuto una pace stabile e tra il 1997 e il 2003 è stato teatro di un conflitto passato alla storia come la “prima guerra mondiale africana”, che vide coinvolte otto nazioni africane e 25 gruppi armati, molti dei quali attivi ancora oggi.
Dall’indagine, emerge che il presidente non vuole lasciare il potere per non rinunciare a un incarico che ha permesso a lui e alla sua famiglia di controllare le principali ricchezze del Paese, che comprendono l’estrazione di minerali, l’allevamento, la costruzione di strade e di altre infrastrutture. Un’ulteriore conferma di quanto appurato un anno fa dal settimanale economico statunitense giunge da un’altra recente inchiesta realizzata dalla Ong britannica Global Witness attraverso l’analisi dei dati dell’Extractive Industries Transparency Initiative, dai quali emerge che un fiume di denaro proveniente dal settore minerario, si è disperso all’interno di una vasta rete corruttiva legata al presidente congolese.
Leggendo il rapporto appare evidente che detenere il potere in Congo, significa gestire affari miliardari con le multinazionali e i Paesi affamati di materie prime, che sono i primi ad avere interesse a far sì che l’intera area resti destabilizzata e a tenere la popolazione nella povertà e nell’ignoranza, pur di accapparrarsi il tesoro a prezzi stracciati.
Tra le varie ricchezze del suolo c’è il coltan, indispensabile per i nostri smartphone e l’industria aerospaziale. Al giorno d’oggi è difficile trovare qualcuno che non faccia ampio uso di cellulari, tablet, computer portatili e altri dispositivi elettronici Gli smartphone sono diventati ormai degli strumenti insostituibili, con cui controlliamo freneticamente appuntamenti, e-mail e impegni. Ma in pochi però sanno che le batterie che alimentano questi dispositivi vengono prodotte con coltan e cobalto, due materiali ottenuti attraverso il lavoro– sfiancante ed estremamente rischioso – di uomini e bambini nelle miniere della Repubblica Democratica del Congo (Rdc). Il Coltan è un minerale di superficie e per estrarlo non bisogna fare costosi tunnel di chilometri. È raro, si trova in Congo e in pochi altri Paesi. Facile, prezioso, utile: tre vantaggi che ne fanno il bancomat della giungla, disponibile per chi abbia un esercito privato, sia guerrigliero o militare corrotto. La manodopera della disperazione è semplice da «creare». Basta razziare nelle province vicine, uccidere, violentare. La gente scapperà e verrà a scavare proprio per il «Signore della guerra» che controlla il coltan. Senza che lui investa un centesimo per allestire la miniera, la gente si organizzerà in clan di 30-40 persone. Gli uomini estrarranno le pietre con le vanghe, le donne e i bambini le laveranno a mano nell’acqua e le trasporteranno al mediatore più vicino. A volte cammineranno anche due giorni nella foresta con trenta chili sulle spalle. I minerali verranno imbarcati per la Cina o la Malesia dove i due metalli del coltan (columbine e tantalio) verranno separati per essere venduti all’industria high tech. A ogni passaggio il Signore della guerra prende una tangente e si arricchisce sulla miseria altrui. Può essere un ribelle, un colonnello dell’esercito o un poliziotto. Attraverso la Congo Dongfang Mining (Cdm), interamente controllata dal gigante minerario cinese Zheijang Huayou Cobalt Ltd (Huayou Cobalt), il cobalto lavorato viene venduto a tre aziende che producono batterie per smart phone e automobili: Ningbo Shanshan e Tianjin Bamo in Cina e L&F Materials in Corea del Sud. Queste ultime riforniscono le aziende che vendono prodotti elettronici e automobili. Amnesty International ha contattato 16 multinazionali che risultano clienti delle tre aziende che producono batterie utilizzando il cobalto proveniente dalla Huayou Cobalt o da altri fornitori della Repubblica Democratica del Congo: Ahong, Apple, BYD, Daimler, Dell, HP, Huawei, Inventec, Lenovo, LG, Microsoft, Samsung, Sony, Vodafone, Volkswagen e ZTE. Nessuna delle 16 aziende è stata in grado di fornire informazioni dettagliate, sulle quali poter svolgere indagini indipendenti per capire da dove venga il cobalto. Il fatto certo è che la Repubblica Democratica del Congo produce quasi la metà del cobalto a livello mondiale e che oltre il 40 per cento del cobalto trattato dalla Huayou Cobalt proviene da quello stato. Mentre le aziende produttrici di apparecchi elettronici o batterie automobilistiche fanno lucrosissimi profitti, calcolabili in 125 miliardi di dollari l’anno, e non riescono a dire da dove si procurano le materie prime, nella Repubblica Democratica del Congo i bambini minatori – senza protezioni fondamentali come guanti e mascherine – perdono la vita: almeno 80, solo nel sud del paese, tra settembre 2014 e dicembre 2015 e chissà quanto questo numero è inferiore a quello reale”. Il Congo è pieno di schiavi volontari al servizio di uomini forti. Milioni, senza neppure la dignità di una statistica attendibile: bambini analfabeti, orfani, condannati tramandare da una generazione all’altra la maledizione delle miniere. Rapporti Onu parlano di 11 milioni di morti legati al controllo di questo business. Di chi è la colpa? Di un Paese troppo ricco di risorse e troppo povero di capitale umano. Dell’era coloniale. Del post colonialismo. Del neoliberismo. Della corruzione. Del fallimento dello Stato. Dei nostri smartphone e missili spaziali. Quasi l’80 per cento del minerale per i telefonini proviene dalla Repubblica Democratica del Congo, l’intero Paese, invece di arricchirsi, ne è sconvolto e per di più, boicottare l’uso del metallo sarebbe come condannare alla fame milioni di persone. Quando usiamo il nostro smartphone, fermiamoci un attimo a pensare, forse le nostre mani potrebbero essere sporche di sangue.